Nelle ultime settimana è tornato alla ribalta il dibattito sulla legalizzazione della produzione industriale e vendita della Cannabis Sativa, la variante della Canapa a basso contenuto di THC e contenuto variabile di CBD.
La legge 242/2016 ha autorizzato la coltivazione della Cannabis Sativa senza bisogno di autorizzazione (come era invece precedentemente previsto dal DPR 309/390). Questo ha dato il via alla nascita di numerose imprese dedite alla produzione ed alla trasformazione di cannabis, determinando un comparto che da lavoro ad oltre quindicimila persone.
Una parte di queste attività ha visto l’apertura di venditori al dettaglio di lavorati della Cannabis industriale, denominati “coffee shop”, individuati dai consumatori come i fornitori legali di infiorescenze e derivati a base principalmente di Cannabidiolo (CBD) ed un contenuto di Delta9tetraidrocannabinolo (THC) molto basso o comunque trascurabile dal punto di visto psicoattivo (per legge la percentuale accettabile è tra 0,2 e 0,6 %), denominata Cannabis light.
La notizia di pochi giorni fa è che il TAR del Lazio abbia sospeso l’attuazione del decreto Speranza/ Schillaci a seguito del ricorso di associazioni di categoria della produzione di Cannabis industriale. Il Decreto considera il Cannabidiolo come sostanza attiva e di conseguenza vendibile solo come farmaco, tramite ricetta non ripetibile, proponendo di fatto lo spostamento del CBD dalla tabella II delle sostanze stupefacenti alla tabella dei medicinali (e quindi vendibili sul mercato solo come tali), tagliando fuori dal mercato la vendibilità al di fuori del circuito medico.
La sospensione del decreto è stata motivata dal TAR per mancanza di evidenze da parte del CBD di causare dipendenza. Il ministero della salute, al riguardo ha richiesto l’opinione dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità, entrambi però non hanno riportato conferma all’ipotesi del Decreto.
La decisione del TAR rischia di di intralciare anche il DDL sicurezza del quale si aspetta l’approvazione a breve, a causa della presenza al suo interno di un emendamento che vieta la vendita di infiorescenze di Cannabis Sativa, ritenendone l’assunzione alterante lo stato psicofisico e quindi responsabile di esporre gli assuntori a rischio della personale e pubblica sicurezza, ovvero la sicurezza stradale. L’emendamento, di matrice espressamente proibizionista, ha l’obiettivo dichiarato da alcuni esponenti della politica di moderare l’attività dei coffee shop.
La situazione, al di la del probabile intento politicamente propagandistico, rappresenta un cambio di tendenza rispetto a quello che è stato l’iter che ha caratterizzato in Italia la Cannabis negli ultimi quindici anni. Il percorso verso la legalizzazione della Cannabis Sativa, partito dall’approvazione della legge 242/2016, ha portato negli anni ad un maggior controllo della sostanza presente sul mercato e soprattutto ad una diminuzione del consumo di Cannabis illegale (ad alto contenuto di THC). Se escludiamo l’alcol, è possibile considerarlo come un primo esperimento di controllo e contenimento della diffusione di una sostanza considerata psicotropa, non basata su una politica repressiva, ma di legalizzazione.
Rendere illegale la vendita di prodotti contenenti CBD estratto dalla Cannabis Sativa avrebbe anche l’effetto di amplificare l’idea del pericolo dipendenza, alimentando paure che porterebbero a confusione invece che ad un maggior senso di sicurezza. È credenza comune che la Cannabis ad alto contenuto di THC sia lo “stargate” verso la dipendenza. Questo perché la maggior parte dei pazienti che sviluppano una dipendenza da oppiacei, oppure da cocaina ed altri stimolanti, usualmente si avvicina al mondo delle sostanze consumando in primis Cannabis. In realtà una grandissima percentuale di giovani assuntori consuma Cannabis almeno una volta nella vita e di questa una parte continua a consumarla in modo esperenziale per un periodo ristretto. Di questi la stragrande maggioranza passato il periodo adolescenziale e della prima fase adulta, non la consuma più per il resto della vita, ad eccezione di sporadici eventi.
Una quota la consuma regolarmente in quantità contenute, senza strutturare una dipendenza e solo una parte residua tende ad assumerne nel tempo quantità sempre crescenti di THC, strutturando una vera e propria dipendenza. Il risconto e la cronicizzazione di una dipendenza quindi è probabilmente più legato ad un pool di motivazioni temperamentali, ambientali e genetiche, in accordo con il modello teorico biopsicosociale, invece che all’incontro con la cannabis.
Questo ovviamente non abilita il THC a sostanza innocua, ma di sicuro considerare il CBD come la nuova sostanza da temere non aiuta di sicuro a risolvere il problema delle dipendenze. Inoltre considerando il consumo della Cannabis tra gli adolescenti, avendo una struttura mentale naturalmente caratterizzata dal bisogno di stimoli forti e nuovi, li rende particolarmente inclini alla trasgressione. Agire quindi in maniera tendenzialmente proibizionista potrebbe rappresentare lo stimolo principale alla trasgressione.
È auspicabile quindi un approccio che bilanci aspetti di monitoraggio, prevenzione e psicoeducativi, in ottica di aumentate consapevolezza e responsabilità nei consumatori, in particolare quando si parla della fascia sensibile adolescenza e giovani adulti.
Sitografia
https://www.politicheantidroga.gov.it/media/1845/cap2.pdf
https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2016;242~art2